L’anno che verrà

Con la chiusura del 2014, tante cose verranno messe in soffitta. Per me, personalmente; ma anche per l’Italia.

È stato anche fin troppo chiaro il nostro Presidente che ieri, nel suo ultimo saluto alla popolazione, ha da una parte confermato la situazione problematica in cui verte il nostro paese, e dall’altra ci ha voluto allietare con gli esempi virtuosi di cui l’Italia si fa portatrice: Samantha Cristoforetti (che ci saluta dalla Stazione Spaziale Internazionale), Fabiola Gianotti (il nuovo direttore cel CERN), Fabrizio (il medico di Emergency impegnato per la lotta contro Ebola, in via di guarigione) e molti altri. Fa specie, e rende ancor più orgogliosi, che molti di questi esempi facciano parte della metà femminile del paese, ultimamente maltrattata e trascurata. Anche tra i candidati per sostituire Giorgio Napolitano c’è una donna di spessore: Emma Bonino. Caldeggerò per la sua candidatura, anche se per questa elezione, “ognuno vale zero”, ché tanto votano solo i parlamentari.

A parte la digressione di orgoglio italico, purtroppo, il resto del discorso conteneva troppe parole di finta speranza che ormai non fanno più effetto. Come in “L’anno che verrà”, di Lucio Dalla. Nel 1979 l’Italia usciva dagli anni di piombo ma ancora non lo sapeva, l’inflazione galoppava e non si vedeva un futuro certo. Bisognava creare dei sogni artificiali, e la TV era lì allo scopo. Con la sovraesposizione di informazioni cui siamo sottoposti ogni giorno grazie a internet, nel 2014 agli sgoccioli non ci rimangono neppure più le fantasticherie dei media, e i nostri sogni ce li dobbiamo creare da soli.

Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
porterà una trasformazione
e tutti quanti stiamo già aspettando
[… lista di figate previste dal nuovo anno …]
vedi, caro amico, cosa si deve inventare
per poterci ridere sopra,
per continuare a sperare.
[…]
L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
io mi sto preparando, è questa la novità.

Siamo forti e preparati per sopravvivere per tutto questo 2015, solo per attendere l’anno successivo.

Intelligenza, mezza bellezza?

 

Mi sento un modello. Sì, uno di quei bellocci che si vedono in televisione e per i quali tutte le ragazzine sbavano. Ok, è vero, per me non sbava nessuno, ma solo perché sono capitato nel secolo sbagliato. O forse semplicemente sul pianeta sbagliato. Ma andiamo con ordine.

Oggi mi è arrivata una lettera dell’associazione Mensa Italia con la quale mi si dice che sono intelligente. In particolare, sempre secondo gli psicologi dell’associazione, io apparterrei a quel 2% di popolazione mondiale che ha un QI (quoziente d’intelligenza) maggiore di 130. In realtà questo dato era già in mio possesso, visto che alcuni psicologi del Gaslini avevano stimato il mio QI a 165 quando avevo solo quattro anni. Questa notizia me ne ha dato una conferma più o meno ragionevole.

Perché, però, la storia del modello nel primo capoverso di questo articolo? Perché l’apporto personale a questo tipo di risultati è zero. L’intelligenza, così come la bellezza, è una qualità innata. Il fatto stesso che è stato possibile calcolarla a 4 anni ne è la prova.

Ora, quindi, incassata questa ottima notizia, mi resta quello che io considero il grosso del lavoro: rimboccarmi le maniche e cercare di non buttare nel cesso ciò che – non per merito mio – mi è permesso di possedere.

Ciao Giorgio

Ogni volta che qualcuno muore, mi viene in mente “Preghiera in gennaio” di Fabrizio De André. È una canzone che parla di morte e di religione. Le due cose vengono sempre associate, perché l’oppio dei popoli serva ad attenuare il dolore e ad accettare che tutto questo abbia un senso.

Oggi ci ha lasciato Giorgio Daledo, un uomo che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare durante la mia esperienza universitaria e collegiale. Una moglie e tre figlie distrutte dal dolore, e una comunità che ancora stenta a crederci. Lo ha divorato in meno di due mesi una malattia tanto fulminea quanto inaspettata. Quando queste cose capitano a 90 anni, si accettano, ma quando capitano a 54 appena compiuti la rabbia è troppa. Troppa per pensare che dopo ci sia qualcosa di bello, troppa per pensare che “le vie del Signore sono infinite”.

Per fortuna di lui conservo ancora il ricordo forte di una bella amicizia. E non ci sarà ideale o dio che riuscirà a cancellarlo.

Welcome to Italy

Comandante Schettino: “Comandante ma si rende conto che è buio e che da qua non vediamo niente?”
Capitano Gregorio De Falco: “Cosa vuole fare, vuole andare a casa?”

Quanto è maledettamente ironica, la sorte…

I miei scritti

Finalmente dopo anni e anni mi sono deciso a perdere un paio d’ore per raccogliere tutti gli articoli che ho scritto negli ultimi anni. Non che sia roba da premio Pulitzer, però tutta ordinata fa la sua discreta figura. Potete trovare tutto nella pagina “Scritti” (non ve lo linko perché lo trovate nella colonnina a destra di questo sito).

Chiavetta Tre

In questi giorni non trovo la mia chiavetta Tre. Come si suol dire in gergo comune: l’ho persa. Ma il mio non è un averla persa perché mi hanno rubato la borsa. Semplicemente non la trovo più, e con tutta probabilità sarà infognata in qualche pertugio di qualche zaino.

Eppure il centro assistenza Tre vuole la denuncia di smarrimento della mia chiavetta.

Ora, dovrò trovare il tempo di andare dal Carabinieri per fare una cosa sostanzialmente inutile, visto che per bloccare una scheda è sufficiente una telefonata al servizio clienti Tre.

Non si può mai stare tranquilli

Ieri e oggi giornate nere per la mia informatica. La chiamo “mia”, perché tutto sommato un po’ appartiene anche a me: lavoro in ambito informatico e sono dottorando in ambito informatico.

Tuttavia, ogni tanto c’è chi rovina questa “mia” informatica. Sto parlando di tutte quelle schiere di persone che, quando trovano una falla in un sistema informatico, spiattellano al mondo quello che hanno trovato. È successo infatti nell’Università di Pavia, dove lavoro, e ha causato non poche scocciature al sottoscritto e a tutte quelle persone che si fanno il mazzo per far andare avanti la baracca.

Ci sono vari modi di fare gli “hacker”. Uno è quello di andare contro i cattivi (come ad esempio le multinazionali), un altro è quello di dimostrare che si può fare e basta, un altro ancora quello di trarre personalmente profitti dalle proprie marachelle. Quello che però non capisco è la condivisione con il mondo delle informazioni trovate, anche se personali. Un “celodurismo” allo stato puro, degno del peggior berlusconismo italico. È come se un medico, scoprendo una malattia in un paziente, anziché curarlo lo imbottisse di farmaci per farlo stare peggio. Per parafrasare loro, l’azione potrebbe anche essere accompagnata a un’affermazione del tipo: “Avete visto come la Natura sia poco sicura? E questo è solo l’inizio”.

Ecco, quindi, il perché della “mia” informatica: diversa da una “altra” informatica, che non mi appartiene.