L’incubo del passaporto (e una soluzione)

Sulla burocrazia italiana voglio essere ottimista e pensare che sia una sorta di esame che il Paese fa sostenere ai suoi cittadini per abituarli alla vita. Se si riescono a superare indenni alcune prove, allora si è pronti a sopportare qualsiasi cataclisma.

Una di queste prove è il rilascio del passaporto.

Ho fatto il mio primo passaporto nel 2013. All’epoca un gran colpo di fortuna (e un po’ di bravura, dai) mi ha permesso di presentare un lavoro alla principale conferenza internazionale sul web semantico, la cui edizione del 2013 si svolgeva a Sydney. Per andare in Australia, ci vuole il passaporto. Per fare il passaporto, non ci vuole un fiore (come cantava Sergio Endrigo), ma un mix di euro e pazienza, e all’epoca non ricordo di aver subito traumi come, invece, è successo in questi giorni.

Il brutto del passaporto è che dopo 10 anni scade, e non ci vuole un laureato in matematica per fare 2013 più 10. Poiché mi capita di viaggiare all’estero, spesso con poco preavviso, mi porto avanti con le pratiche.

L’appuntamento

Il primo scoglio è la prenotazione online. Uno pensa: va be’, è online, dovrebbe essere una figata. E invece no, semplicemente perché la gran parte degli uffici non ha disponibilità.

Questa la situazione a Trento.

Perché succede questo? Tutti gli italiani hanno improvvisamente deciso di fuggire all’estero? Un estero lontano, tra l’altro, perché la maggior parte dell’Europa è percorribile con la sola carta d’identità.

Nulla di tutto ciò: la causa di questo intasamento degli uffici è la pandemia appena conclusa (forse). Non lo dico io, eh, lo dicono un po’ tutti. Per quasi tre anni nessuno ha rinnovato il suo passaporto perché ‘tanto non si poteva andare da nessuna parte. Ora, invece, lo vogliono rinnovare tutti. E tutti insieme.

Un Paese civile farebbe ragionamenti del tipo: potenziamo il servizio estendendo l’orario; aumentiamo il numero di persone che se ne occupino; velocizziamo le procedure per fare sì che possano essere prodotti più passaporti nello stesso intervallo di tempo.

E invece no. Tutto resta come prima, a partire dalle procedure medievali previste per l’utente.

Per parafrasare l’utente di un forum che si occupa della questione, si chiama “passaporto elettronico”, ma l’unica cosa elettronica è la prenotazione (impossibile, tra l’altro), perché tutto il resto resta cartaceo. Piacerà molto a tutti quelli che “è meglio togliere lo SPID perché alcuni fanno fatica a usarlo”. C’è gente che fa fatica a prendere la patente, forse sarebbe una buona idea togliere le auto.

Cercando un po’ in giro, scopro l’esistenza di un escamotage per aumentare le probabilità di successo: cambiare luogo di domicilio. L’appuntamento si può infatti prenotare nel luogo dove si ha la residenza oppure in quello dove si dichiara il domicilio. Ho usato “dichiara” perché anche nel nostro Paese ultra burocratizzato esiste una questione per cui è sufficiente una dichiarazione: il domicilio. Sul sito delle prenotazioni provvedo a dichiarare il domicilio a Roma (cosa nemmeno troppo diversa dalla realtà) e – miracolo! – mi compare un secondo tastino di prenotazione per scegliere una sede romana.

Qui la situazione pare un po’ migliore. Ci sono tanti no, ma si trova anche qualche sì (anzi, “si”, senza accento).

Attenzione, però, perché i sì non sono tutti uguali. Quelli che riguardano la città di Roma si comportano in modo simile ai parenti trentini, con l’unica differenza che ci sono a spot degli slot liberi (in media tra aprile e maggio, e al momento della scrittura di questo articolo siamo a gennaio). Poiché io vivo a Roma solo per qualche giorno al mese, non riesco a prevedere con così largo anticipo le mie trasferte. Ammetto però che per un residente stanziale la questione si fa quantomeno gestibile.

La cosa invece anomala riguarda le sedi distaccate, come per esempio quella di Civitavecchia. Cliccandoci sopra, si scopre il paese dei balocchi, con tutti gli slot liberi, anche a brevissima distanza! Nel momento in cui sto scrivendo è il 24 gennaio, e la settimana successiva sembra un miraggio.

Uno potrebbe pensare: Civitavecchia è scomoda per un romano, quindi non la sceglie nessuno. E invece no, c’è il trucco: nell’ufficio di Civitavecchia non si può prenotare se non si è residente nei dintorni. In pratica ci sono decine di posti liberi (quando in altre parti d’Italia non ci sono o bisogna aspettare mesi) che non vengono usati perché riguardano solo quelli che abitano lì.

Caro residente di Roma: se tu devi aspettare i mesi è anche colpa di chi ha deciso che non potevi andare a Civitavecchia. Caro residente di Trento: tu ti attacchi comunque perché per te non c’è soluzione: anche le sedi distaccate sono tutte indisponibili.

E invece la soluzione c’è. Capita infatti che saltuariamente qualcuno disdica l’appuntamento, nel qual caso questo ritorna disponibile e il relativo “No” diventi “Sì”, anzi “Si” (senza l’accento). Bisogna fare presto, però, perché dopo pochi minuti tutto torna come prima, a dimostrazione ulteriore del gran numero di utenti che hanno bisogno dell’agognato documento.

Ok, ma la soluzione è quindi quella di passare le proprie giornate sul sito del Ministero?

Ovviamente no. Esiste almeno un trucco efficace per risolvere il problema. Si chiama Auto Refresh, è un plugin di Google Chrome (ma immagino esista anche per Firefox) e permette di tenere monitorata una determinata pagina, finché qualcosa non viene modificato: per esempio – ma solo per esempio, eh – un “No” che diventa un “Si”.

A questo punto basta entrare nella pagina delle prenotazioni della propria città, cliccando su uno dei tastini in basso una volta entrati nel sito. Nel mio caso ce ne sono due: Trento e Roma. Fate attenzione a non usare la ricerca con la lente (e il menu a discesa) perché altrimenti l’auto refresh non funziona.

Una volta entrati nella pagina, cliccate sul tastino del plugin (in alto, a fianco dell’indirizzo) e configuratelo. Suggerisco di mettere l’aggiornamento ogni 10 secondi e il monitoraggio dell’intera pagina. In soldoni, questo significa che il plugin aggiornerà quella pagina ogni 10 secondi e appena trova qualcosa di diverso emetterà un suono, e voi potete procedere alla prenotazione.

Qualcuno penserà: ma c’è bisogno di mettere 10 secondi, un intervallo così breve? Risposta: a Trento probabilmente sì. Mettendo 30 secondi, per ben due volte non sono riuscito ad arrivare in tempo e quindi ho trovato di nuovo tutto pieno anche agendo immediatamente dopo la notifica. Con 10 secondi invece sono riuscito. Pare che il sito delle prenotazioni non abbia strani controlli a riguardo, quindi consiglio 10 secondi.

Il pagamento delle imposte

Spoiler: se siete riusciti a prendere l’appuntamento, il grosso è fatto.

Il resto degli adempimenti consistono in una fotocopia del documento d’identità (facile), due foto tessere (facile anche questo, ma meno) e due pagamenti.

E qui la domanda (l’ennesima) sorge spontanea: perché devo fare due pagamenti? Non c’è una ragione razionale o sensata, è così e basta. E, per semplificare le cose, i due pagamenti vanno fatti necessariamente in due luoghi diversi. Vorrei un mondo ideale in cui vado in Questura, mi viene detto “sono tot euro”, porgo la mia carta e pago. Invece no, anche in questo caso lo Stato vuole formare cittadini sempre più attenti ai dettagli.

  • Prima tranche: 42 euro e 50 centesimi, da pagare rigorosamente presso un ufficio postale. Nonostante all’apparenza sembri un bollettino postale comune, in realtà si tratta di un bollettino speciale a tiratura limitata (con bordo rosso), che non prevede in alcun modo la possibilità di essere saldato online. La coda in posta è obbligatoria. È probabile che l’obiettivo del legislatore sia quello di smuovere gente pigra a fare due passi. Nota di colore: alla cifra di cui sopra bisogna aggiungere 2 euro di commissione, in pratica una tassa sulla tassa.
  • Seconda tranche: contrassegno amministrativo da 73 euro e 50 centesimi. Anche in questo caso, non è prevista alcuna modalità di pagamento online, ma bisogna procurarsi l’agognata etichetta (un’etichetta! nel 2023!) presso un tabaccaio. Sempre nell’ottica di agevolare il movimento fisico, tale importo deve essere pagato rigorosamente in contanti, quindi la passeggiata include necessariamente un pit stop al bancomat (e ce ne sono sempre meno).

Costo totale: 118 euro. Posso umilmente chiedere di prevedere una soluzione alternativa a 120 euro (crepi l’avarizia), che però si possa pagare tutta insieme direttamente in Questura? O magari con PagoPA, che serve proprio per questo (il cui slogan dice “Paga come vuoi, quando vuoi!”, ma effettivamente non specifica “cosa vuoi”).

In Questura

La parte più semplice (e incredibile, viste le premesse) è stata la modalità di svolgimento dell’appuntamento in questura. Puntualissimi, veloci, efficienti: in meno di 20 minuti avevo fatto tutto, impronte digitali comprese.

Forse noi italiani siamo un po’ allergici all’innovazione, e ci piace fare le cose all’antica.

Alla ricerca dell’incidente nucleare

Da giorni ormai tutti i telegiornali parlano della centrale nucleare di Zaporizhzhia e oggi c’è stata una telefonata sul tema tra Macron e Putin.

I russi accusano gli ucraini, e viceversa, nel solito valzer di insinuazioni indimostrabili sotto la coltre della “fog of war”.

Invece di cercare i colpevoli a partire da quello che succede, possiamo provare a stimarli in base agli effetti che certe azioni causano.

Partiamo per esempio dalla crisi del grano. Da quello che sappiamo, da una parte gli ucraini avrebbero minato il porto, dall’altra i russi non avrebbero fatto passare le navi. Per trovare una soluzione (che alla fine pare essere arrivata in un blitz, tra l’altro) ci sono voluti mesi, un periodo lunghissimo nel quale molte popolazioni, per esempio quella libanese, hanno visto schizzare in su il prezzo del pane.
Chi ci ha guadagnato? Un po’ gli ucraini, forse, che hanno in questo modo tenuta alta l’attenzione verso il conflitto. Un (bel) po’ i russi, che in questo modo hanno destabilizzato vari paesi del nord Africa, aumentando i flussi migratori verso l’Europa e – di fatto – acuendo uno dei pochi temi su cui l’Europa si è sempre mostrata divisa.

Qualcuno per caso ricorda quale potrebbe essere un altro tema divisivo per l’Unione Europea? Se avete risposto “energia”, la pensate come me. L’Europa ha sempre avuto un gigantesco problema energetico. Siamo tanti, viviamo in una superficie relativamente piccola, abbiamo poche risorse naturali e siamo parecchio energivori. D’inverno ci piace il tepore, d’estate il fresco. Non sto a dilungarmi sulle scelte fatte negli ultimi 20 anni per procurarci le materie al fine di soddisfare questi bisogni, ma sta di fatto che l’emergenza causata dall’aumento dei prezzi, a loro volta causati dalla nostra dipendenza dalla Russia, ci stanno facendo ripensare all’energia nucleare.

Siamo quasi arrivati al punto. Immaginate ora di essere la Russia. Sapete che nell’immediato i paesi europei hanno talmente bisogno del vostro gas che sono disposti a pagarlo il doppio e riceverne la metà (in pratica i russi stanno guadagnando la stessa cifra fornendoci molto meno gas; questa cosa mi fa impazzire, ma purtroppo è così). Sapete anche che i suddetti paesi stavano abbandonando l’energia nucleare ma ci stanno ripensando. Sapete che nell’opinione pubblica europea uno dei fattori che più ha giocato a sfavore dell’energia atomica è stato l’incidente di Chernobyl. Potete infine stimare che ci vorranno anni (tanti anni) per un passaggio completo all’energia pulita, soprattutto senza (ri)passare per il nucleare.

Ora, immaginate di avere in mano una centrale nucleare e un ottimo pretesto per scatenare un incidente. Capisco che a pensar male si fa peccato, però anche il proverbio, nella sua saggezza, sostiene che quasi sempre ci si azzecca.

L’Intercity 518

Oggi voglio raccontarvi la storia dell’Intercity 518, un momento che entrerà nella storia dei trasporti italiani, uno di quegli eventi per cui potrò dire ai miei nipoti: “Io c’ero”.

(so che è un clickbait, ma sappiate che Trenitalia ha promesso di rimborsare il 100% del biglietto, quindi ne vale la pena)

L’Intercity 518 è l’unico treno che collega direttamente Roma con Ventimiglia, l’estremo ponente della Liguria, utilizzato per lo più dai turisti che vanno in Francia. Non è insolito, infatti, trovare fauna di vario tipo, che spesso non parla italiano. Se poi la suddetta fauna è francese, non parla nemmeno inglese (questa è un po’ razzista, lo so).

Prima di entrare nel vivo, però, è utile fare un ripasso della topologia delle ferrovie di Roma, almeno nella parte interessata dalla narrazione. Partendo da Roma Termini, i treni che vanno verso il Tirreno (a ovest, diciamo) passano prima dallo snodo di Roma Ostiense, poi raggiungono Trastevere, dove la linea si biforca per andare a Fiumicino, e infine a Roma San Pietro, dove poi prosegue per Civitavecchia o Viterbo.

La partenza del convoglio è prevista intorno alle 16 da Roma Termini, anche se io normalmente lo prendo da Roma Ostiense, più vicino a Roma San Pietro, dove ho domicilio nelle mie “vacanze romane”. Lo prenderei proprio da quest’ultima stazione, se non fosse che l’Intercity ci passa ma non ci ferma (questa informazione, apparentemente inutile, tornerà utile tra poco).

Morale, esco di casa per andare a San Pietro a prendere il solito regionalino per Ostiense. C’è un discreto diluvio, uno di quelli che sai che dura pochi minuti, gli unici pochi minuti in cui devi uscire di casa per andare da qualche parte. A piedi.

Arrivato alla stazione scopro di non essere stato l’unico ad aver subito disagi a causa della pioggia: un fulmine ha colpito la centralina di Roma Ostiense, bloccandone tutto il traffico. Questo mi preclude la possibilità di prendere il regionalino per acchiappare poi l’Intercity, ma allo stesso tempo mi tranquillizza perché lo stesso Intercity avrebbe avuto problemi a partire, dovendoci passare, per Ostiense. Poi in quei momenti ognuno si fa le sue paranoie: magari l’Intercity lo fanno passare lo stesso; magari essendo un treno a lunga percorrenza gli fanno fare un tracciato alternativo; magari ci appiccicano sopra delle eliche e lo fanno decollare a mo’ di drone. Chi può dirlo? Insomma: esco dalla stazione e prendo il 64 per andare a Termini a prenderlo alla partenza.

Durante il tragitto in bus, sorrido al pensiero che nella tanto citata sigla PNRR l’ultima parola è “resilienza” e poi basta un fulmine per mandare in tilt l’intera rete dei treni romana. Mi sposto con la mente in Ucraina, dove le ferrovie sono martoriate dai bombardamenti ma riescono comunque a trasportare persone e armi. Altro che quel rarissimo evento atmosferico chiamato fulmine.

Arrivo a Termini e il treno è già sul binario. Come si poteva prevedere, il treno è dato con 15 minuti di ritardo. So per certo che alla fine saranno di più, ma penso che “prima o poi partirà, non ho da fare cambi, chissenefrega”.

Prendo posto nella carrozza numero 4. Di fronte a me alcuni ragazzini guardano film sul cellulare, mentre a fianco c’è una mamma con due bambini indemoniati. “Guarda che bel disegno che ho fatto”, “Ma è bruttissimo”, “Mammaaaa! [nome del bambino] ha detto che il mio disegno è brutto”. Il tutto urlando a squarciagola. E comunque, il disegno era orribile. Spero che scendano presto.

A un certo punto arrivano le minacce della mamma: da “Se non fate i bravi, vi lascio qui” a “se non la piantate, torniamo a casa e niente vacanza”. Cara signora mamma di quelle due piccole pesti, se le minacce non sono credibili non ci crederanno.

Intanto è passata circa un’ora e mezza e siamo ancora fermi a Roma Termini. Ogni tanto arriva un annuncio del tipo “ci scusiamo per il disagio, vi terremo informati sulla situazione”. Cosa che però non è stata fatta, perché a un certo punto parte il telefono senza fili tipico delle situazioni di disagio sociale tra sconosciuti: “il treno non parte più”. Cerco il capotreno, che effettivamente mi conferma che quel treno da lì non si sarebbe mosso. Grazie mille per averci avvisato tempestivamente e con i canali appropriati.

Il suggerimento è quello di andare a Roma San Pietro (sic!), diventato il nuovo capolinea della zona tirrenica, dove nel giro di un paio d’ore sarebbe partito il treno, fisicamente diverso ma con lo stesso itinerario.

A quel punto faccio una domanda che si rivelerà profetica: “Ma siamo sicuri che poi arrivi a Ventimiglia? Non è che si ferma prima?”. “No, no, non si preoccupi”, mi tranquillizza il capotreno, “se il treno parte, poi arriva”. Benissimo.

Si torna alla fermata del bus, e si riprende il 64 insieme ai capitreno (essendo fuori uso Roma Ostiense, il trasporto urbano su gomma era diventata l’unica opzione percorribile, anche per loro).

A San Pietro è il caos. Sui marciapiedi sono accalcate centinaia di persone in attesa da ore di qualsiasi cosa (anche un calesse, probabilmente) che permettesse loro di andare verso Civitavecchia e Viterbo. Chiedono se possono prendere il nostro Intercity (che effettivamente ci passa) ma con l’empatia tipica di Trenitalia viene loro detto che “è un Intercity, se salite dovete pagare il sovrapprezzo”. Tenore della risposta media: “siamo qui da due ore, se questo treno va a Civitavecchia io ci salgo e sticazzi”.

L’ottimismo di queste persone si spegne rapidamente, quando scoprono che l’Intercity deve ancora arrivare, e non c’è una stima di quando questo avverrà. Ci dicono solo che il materiale è quello del treno 511 proveniente da Torino, ma l’app di Trenitalia non è aggiornata e tutto quello che si sa è che un’ora prima si trovava a Civitavecchia. Tra l’altro questo 511 doveva andare a Salerno, ma il suo viaggio si è miseramente interrotto a Roma San Pietro. Non so che fine abbiano fatto i suoi passeggeri originari.

Sono ormai le 18.30 e il 511 (che sta per diventare 518) arriva e vomita il suo contenuto di umanità spaesata e incazzata sul marciapiede del binario 4 della stazione di San Pietro. Umanità incazzata proveniente da Torino che si aggiunge all’altra umanità incazzata proveniente dal resto del mondo, tutti insieme a Roma San Pietro.

Io “guardo e passo”, e salgo sul treno. Appena trovato il mio posto, noto nelle poltroncine a fianco due zainetti da bambino senza alcun passeggero. Il mio primo pensiero è stato che fossero stati dimenticati dai passeggeri del treno per Napoli, ma mi sono poi reso conto che era solo un escamotage del mio cervello per rimuovere la presenza dei due piccoli indemoniati, che infatti dopo pochi minuti si palesano anche sul nuovo convoglio.

Condizioni di pulizia a parte (Torino-Roma è lunghetta e non c’è stato tempo di dargli una passata), finalmente l’odissea mi sembra finita e poco dopo le 19 il treno parte.

Da Roma a Genova, il viaggio prosegue senza troppi intoppi. Resta inspiegabile il motivo per cui siamo partiti con 180 minuti di ritardo e siamo arrivati a Genova con 210. Visto l’orario, mi aspettavo che, anzi, si recuperasse qualcosa, e invece nisba!

Tuttavia uno spiraglio di recupero arriva a Genova Brignole. Dei 12 minuti ufficiali previsti di sosta (per motivi che sono fuori dalla mia comprensione), il treno ne salta la quasi totalità, recuperando quindi una decina di minuti buoni. Sono piccole soddisfazioni.

All’una meno dieci minuti siamo a Genova Piazza Principe, punto di svolta del viaggio. Da lì dovrebbe essere tutto in discesa, mi dico, anche topograficamente guardando la cartina della Liguria.

E invece…

E invece il treno non ha mai lasciato la stazione di Genova. Dopo un’ora di sosta, iniziano ad arrivare delle piccole scatole di cartone con scritto “Courtesy kit”, e non è mai una buona notizia. Mi mangio volentieri la crostatina e i taralli, restando in attesa del disastro in arrivo.

Ore 2, ormai siamo a Genova da più di un’ora, arriva la ferale notizia: “Il treno non proseguirà la corsa”. Ricordate la domanda profetica di prima? Ecco. “Tutti i passeggeri devono scendere dal convoglio, sarete assistiti dal personale di stazione in attesa che si trovi una soluzione alternativa”.

Vengo a sapere in un secondo momento che lo stop è stato causato dal malore di un macchinista, Trenitalia ha provato a cercare un sostituto senza successo, e alla fine ha optato per fermare il treno.

Nella mezz’ora successiva arrivano poche informazioni. Pare che siano state contattate varie aziende di autotrasporti per trovare dei pullman sostitutivi, ma l’unica disponibile era a Torino, tramite la quale saremmo partiti non prima delle 5 per attendere l’arrivo dei mezzi a Genova. Terrorizzati da questa eventualità, ci viene proposta una soluzione basata su taxi: una ventina in tutto, per le 86 persone ancora presenti sul treno a quel punto.

Mentre a Roma San Pietro regnava il caos, qui a Genova si percepisce la totale rassegnazione dei viaggiatori. Sarà l’ora, la stanchezza o il senso di impotenza, sta di fatto che nessuno si mette a urlare o discutere con il personale di Trenitalia in modo acceso. Riportatemi a casa in qualche modo, vi prego!

La ragazza dell’assistenza ci legge i numeri delle destinazioni (“a noi risultano: 20 persone per Savona, 15 per Imperia, 10 per Ventimiglia, ecc”) e ci chiede di raggrupparci. Nonostante la situazione grottesca, iniziamo a fare conoscenza l’uno dell’altro per chiedere le varie destinazioni. Io trovo i miei “colleghi” diretti a Bordighera, veniamo uniti a un ragazzo con destinazione Alassio e finalmente, alle 3.15, partiamo.

Il viaggio in taxi è stato molto piacevole: scopro che i tre ragazzi ventenni con destinazione Bordighera (che, ancor meglio, era Vallecrosia come la mia) si apprestavano a trascorrere qualche giorno di vacanza. L’altro ragazzo ventitreenne, scaricato per primo ad Alassio, raggiungeva un suo amico per le ferie. Ognuno accompagnato dalla sua storia, arriviamo a destinazione: sono le 5.20 e sono a casa, quasi non mi sembra vero.

Un posto chiamato posta

Questa mattina ho deciso di intraprendere una spedizione mistica, uno di quei viaggi che si possono immaginare solamente in un mondo fantastico oppure dopo aver assunto roba buona. Sono andato all’ufficio postale.

Non è una cosa da tutti e da tutti i giorni, eh! Innanzi tutto, da quando hanno dimezzato l’orario di apertura, trovarlo aperto è un po’ dome giocare alla roulette. Rosso o nero? Giorno pari o giorno dispari? Sì, perché alcuni sono aperti lunedì, mercoledì e venerdì; altri, invece, sono complementari e si possono utilizzare solamente martedì, giovedì e sabato.

Oggi era il mio giorno fortunato, e la mia puntata ha avuto successo. Arrivato davanti all’ingresso del luogo incantato, ho intravisto alcune persone all’interno. E non all’esterno, il che è già una buona notizia di per sé, perché significava non avere nessuno davanti a me per la coda. Da quando c’è la pandemia, infatti, le code si fanno fuori, indipendentemente dalla temperatura, e con tanta buona pace di chi vorrebbe prendere almeno il biglietto con il numero, così da sentirsi parte di un qualcosa di più grande e non un mero spettatore infreddolito del passare delle ere.

L’ottimismo di essere il primo della lista è un po’ scemato quando, attraverso la vetrina del sito leggendario, stimo l’età delle due persone che stanno impegnando gli sportelli. Diciamo non proprio di primo pelo.

In realtà il problema non sarebbe di per sé l’età, bensì la relazione tra quest’ultima e la tranquillità nella scelta di come trascorrere il proprio tempo libero. Pare infatti che ci sia una correlazione proporzionale (forse esponenziale) tra le due misure dopo che si è superato quell’agognato traguardo chiamato pensione. Forse si tratta di una distorsione nello spazio-tempo, che fa percepire l’avanzare verso l’eternità in modo differente.

E se da una parte della barricata di cristallo ci stanno delle entità che hanno superato l’ambito obiettivo, dall’altra parte la situazione si inverte, ma un simile obiettivo pare l’abbiano invece raggiunto gli oggetti elettronici.

L’ultimo ricordo che ho delle stampanti ad aghi risale agli inizi degli anni Novanta. Ero alla scuola elementare. Con la mia Star LC-100 Colour, collegata al mitico Amiga 500, stampavo il giornalino che usciva con regolarità nella mia città Lego. Poi, verso la metà del medesimo decennio, ancor prima che il mio corpo sviluppasse gli ormoni necessari a mettere da parte i Lego di cui sopra, la tecnologia mi portò il getto d’inchiostro. Che colori! Che precisione!

Ecco, pare che Poste Italiane abbia saltato questo passaggio. O magari qualcuno nei piani alti ha un feticismo particolare verso il suono inconfondibile degli aghetti che affondano nel nastro di inchiostro e stampano – puntino dopo puntino – immagini meravigliose. O ancora, è possibile che la decisione sia di stampo più romantico: far assaporare ai millennials quel gusto un po’ retrò che altrimenti sarebbe perduto per sempre. Escludo invece che lo facciano per avvicinare le età dei due lati del vetro antiproiettile: quello lo fanno già con gli intramontabili timbri di legno, che rompono la monotonia del bzzz bzzz della stampante con il tum-tum del maniglione.

Resta solo da sperare che le simpatiche signore (erano donne, purtroppo, ma per finzione narrativa possiamo immaginare due uomini o un democristiano parecchio: la sostanza sarebbe la stessa) si siano recate nel sacro sito per un’operazione semplice, come pagare un bollettino o inviare una missiva.

E invece no.

Il primo sospetto giunge quando, nonostante i doppi vetri che mi separavano dall’interno, sento una delle due avventrici urlare: “Non è possibile avere tre carte sullo stesso conto, così faccio confusione”. Probabilmente la stessa signora conserva gelosamente nel portafogli tutti gli scontrini degli acquisti degli ultimi 10 anni. Ma tre carte no, è un affronto.
E dallo sportello numero 2, quello più vicino alla porta, è tutto!

Dall’altra parte, invece, le informazioni sono più complesse da recuperare, anche per uno dallo spirito del giornalista d’assalto come me. Tuttavia non è di buon auspicio l’allontanamento dell’operatrice dalla postazione per un tempo indefinito. Uso il termine “indefinito” non a sproposito, perché l’ufficio postale crea una distorsione temporale talmente accentuata che l’assenza di questi luoghi dal mondo del cinema di fantascienza mi lascia sempre un po’ stupito. Il tempo, infatti, che dopo Einsten è chiaro essere relativo, trascorre in modo totalmente diverso a seconda dell’appartenenza a uno dei tre insiemi: i dipendenti delle poste, gli avventori dell’ufficio già allo sportello, gli utenti ancora in fila. Per i primi, infatti, la percezione del passare del tempo è paragonabile a quello di un bambino al luna park: “Ma come, mamma, è già ora di andare?”. Per i secondi, invece, è simile a quello dello spettatore al cinema quando ha sbagliato sala: il film passa via comunque, ma non proprio tantissimo. Gli ultimi, infine, soffrono di “amnesia da tempo”, e riescono a guardare l’orologio del telefonino anche più volte all’interno del medesimo minuto, pensando che tra una visualizzazione e l’altra avrebbero potuto guardare un paio di puntate della loro serie preferita.

Nel frattempo, inutile dirlo, si è creato un certo affiatamento tra gli utenti in attesa, culminato con l’affermazione di uno di loro: “Mia figlia, quando ha partorito, ci ha messo meno”. Io non ho figlie e non ho mai partorito, ma terrò a mente per il futuro, grazie.

Dopo circa venti minuti (percepiti: quattromilanovecento; per la Questura: due), finalmente la signora delle tre carte e dei dodicimila scontrini termina le sue operazioni – o, più probabilmente, la sua unica operazione – e faccio il mio ingresso trionfale nella maestosa costruzione.

Versamento. Tre minuti di orologio. Tre.
Nonostante la stampante ad aghi.

I mille fork dei Bitcoin

(immagine presa da reddit, modificata dall’originale di xkcd)

Ho iniziato a sentire parlare di bitcoin nel lontano 2010, quando ancora nessuno se li filava e – soprattutto – quando ne avrei potuto comprare a migliaia per un prezzo irrisorio e ora non sarei qui a scrivere sul blog ma vi saluterei da una spiaggia caraibica. Purtroppo sono qui.

Non mi perderò a spiegare cosa sia il bitcoin perché al lettore che non dovesse saperlo sconsiglio vivamente di andare avanti in questo articolo.

Si parlerà infatti di fork, un termine informatico molto tecnico che si usa per definire la separazione di un progetto in due progetti distinti, che prendono ognuno la sua strada. Per fare una similitudine, un fork può essere rappresentato da una parte dei dipendenti di un’azienda che abbandona quest’ultima per fondarne una propria, molto simile alla precedente ma con qualche differenza (che normalmente motiva la scissione). Un fork famoso nell’informatica quotidiana è stato quello che ha portato alla nascita di LibreOffice nel 2010, che si è separato da OpenOffice.

Anche il bitcoin, essendo un oggetto informatico, può subire un fork e separarsi in due valute distinte, ognuna delle quali prende la propria strada. La domanda che può sorgere spontanea è: perché fare un fork quando è possibile creare una nuova moneta da zero con le caratteristiche richieste? La risposta è semplice: fare un fork dà automaticamente visibilità alla nuova moneta (che quindi non si perde tra le più di 1300 in circolazione) perché chi possedeva bitcoin prima del fork si ritrova con, in aggiunta, una certa quantità della nuova moneta appena creata. È come lanciare sul mercato un prodotto che ha già milioni di utilizzatori. Comodo, no?

Ovviamente nessuno si è interessato di fare fork di bitcoin finché questo non è diventato famoso, tanto da popolare le prime pagine dei giornali di tutto il mondo: nonostante il bitcoin abbia già più di 8 anni, il primo fork risale infatti solo all’estate scorsa, e ha dato vita a Bitcoin Cash.

La moda poi si è sparsa in giro per la rete, e ora esistono molte monete nate dalla scissione del bitcoin. Come detto, tutti gli utenti che possedevano una certa quantità della moneta elettronica al momento del fork si troveranno in saccoccia anche un certo quantitativo (spesso uguale) di quella nuova.

Vediamo una rapida carrellata degli ultimi fork di una certa importanza (ce ne sono stati altri rispetto a quelli elencati, ma non hanno riscosso particolare successo).

Bitcoin Cash. È il primo della serie, avvenuto il primo agosto 2017, a partire dal blocco 478559 della catena di blocchi del bitcoin (la famosa blockchain). Motivo della scissione è stata la necessità di aumentare la dimensione dei blocchi della catena, che in pratica permette di poter registrare le transazioni più velocemente, senza dover aspettare tempi ormai geologici, dovuti all’intasamento dell’uso del bitcoin per via della celebrità crescente.

Bitcoin Gold. Avvenuto il 24 ottobre 2017 al blocco 491407, il Bitcoin Gold è stato sponsorizzato come un modo per riportare il mining (ovvero il calcolo necessario a trovare nuovi bitcoin) di nuovo nelle mani degli utenti, rendendo obsoleto tutto l’hardware costruito appositamente per risolvere il problema matematico necessario nel bitcoin (chiamato ASIC).

Bitcoin Diamond. Avvenuta il 24 novembre 2017, al blocco 495866. Ha la caratteristica chiave di offuscare la quantità di moneta presente in ciascun indirizzo (nel bitcoin e in gran parte dei fork le informazioni sulle transazioni e sui saldi dei singoli “conti” sono pubbliche); inoltre decuplica il numero di unità disponibili, con la conseguenza che chiunque abbia un bitcoin prima del fork si ritroverà 10 Bitcoin Diamond.

United Bitcoin. Scissione del 12 dicembre 2017, al blocco 498777. Ha aggiunto al protocollo originale la possibilità di registrare contratti (come già avviene in Ethereum, una moneta virtuale nata proprio con questo scopo, che però non lavora sulla stessa catena di blocchi del bitcoin).

Super Bitcoin. Fork molto vicino al precedente, avvenuto il 12 dicembre 2017, al blocco 498888. Vuole mettere insieme tutte le caratteristiche degli altri fork (anonimato, registrazione contratti, scalabilità, ecc.), che però verranno introdotte in successive modifiche durante il 2018.

SegWit2X. Fork molto discusso e rimandato più volte, avvenuto infine il 28 dicembre 2017 al blocco 501451. Prevede molte modifiche al protocollo originale, come l’aumento della dimensione dei blocchi, il cambio di algoritmo (da ASIC a X11) e alcuni interventi molto tecnici che esulano dallo scopo di questo articolo.

Se vi sembrano tanti, sappiate che questi sono solo i più importanti (ovvero quelli già inclusi in CoinMarketCap). Ce ne sono altre decine, che i più curiosi possono trovare sull’apposita pagina di Wikipedia.

Gli editoriali light (e come leggerli gratis)

In principio furono gli editoriali. Erano lunghi articoli di ampio respiro che i direttori dei giornali erano soliti scrivere e pubblicare ogni mattina, solitamente nella prima colonna della prima pagina del giornale. Non che siano spariti, eh. Quelli ci sono sempre, solamente che ormai non se li caga più nessuno. Così come in pochi, ormai, comprano i giornali cartacei o – semplicemente – hanno la pazienza di leggere un testo più lungo di un post pubblicato su Facebook.

E così i giornali si sono adeguati, fornendo al lettore una versione “light” di questi editoriali, di dimensione adeguata al nuovo pubblico frettoloso. Il primo è stato La Stampa, con il Buongiorno di Massimo Gramellini (1999). Poi si è involontariamente affiancata La Repubblica, la cui “Amaca” di Michele Serra (2001), ormai campeggia sulla prima pagina del quotidiano romano.

Grande assente, il Corriere della Sera, che fino a qualche mese fa non possedeva nulla di tutto ciò e che, seguendo la filosofia delle grandi aziende americane, piuttosto che partorire una propria idea e rischiare il fallimento ha preferito mettere sul piatto un sacco di soldi e comprarsi l’idea del vicino. Da qualche settimana, Massimo Gramellini si è accaparrato la prima pagina del giornale di Via Solferino, sostituito sulla Stampa dall’ottimo Mattia Feltri.

La cosa divertente è che, mentre la rubrica di Michele Serra ha una sua identità nel sorridere di vizi e virtù degli italiani, le rubriche di Feltri e Gramellini sono praticamente identiche (in sostanza, raccontare e commentare un fatto del giorno precedente in luce positiva): da una parte La Stampa non voleva cambiare un format di sua invenzione, dall’altra il Corriere voleva vincere facile e ha detto a Gramellini di fare al Corriere quello che per quasi 20 anni aveva fatto alla Stampa, senza cambiare una virgola.

È così successo quello che stavo aspettando da tempo, cioè che i due giornalisti a un certo punto si sovrapponessero sulla medesima notizia: Il giudice e la bambina e Reato di anzianità (pubblicati entrambi il 14 marzo) sono quasi l’uno la copia dell’altro. Anche oggi i due articoli hanno sfumature simili, lodando il mondo digitale e i social network come salvatori delle generazioni future.

Al di là degli aspetti divertenti della questione, non nego che i tre articoli tutte le mattine mi allietano il risveglio (mi danno il Buongiorno, nomen omen). Non secondaria – anzi, fondamentale – è la buona notizia: tutte e tre le rubriche possono essere lette gratuitamente su internet. Anzi, ufficialmente due: il Buongiorno di Mattia Feltri è addirittura rilasciato con licenza libera Creative Commons, pertanto può essere condiviso e citato; l’Amaca di Michele Serra è disponibile sulla sua pagina Facebook.

Un discorso a parte merita il Caffè di Massimo Gramellini, che è disponibile sul sito del Corriere, ma con alcune limitazioni navigando dallo smartphone. Dopo 10 visite al sito, infatti, iniziano a comparire banner per cui occorre registrarsi e pagare un abbonamento mensile. È comprensibile che il Corriere voglia rientrare del gigantesco investimento, però far pagare nel 2017 un abbonamento per leggere un sito è anacronistico come scommettere su una gara di bighe. Comunque il trucco è semplice: navigando sul sito del Corriere in “modalità incognito” (in Google Chrome) o “anonima” (in Firefox) il banner sparisce e gli articoli diventano tutti leggibili gratuitamente all’infinito.

In partenza per Eindhoven

Lo so, è tanto che non scrivo su questo blog, ma la regola zero per scrivere è avere qualcosa da dire. In realtà avevo tantissimo, ma con poca voglia.

Detto questo, oggi mi sono imbarcato in una esperienza mistica: raggiungere l’aeroporto di Treviso.

Tutto è nato per un errore. Cercando gli aeroporti che connettono direttamente un luogo vicino a Trento con un luogo vicino a Eindhoven, mi trovo un comodissimo Venezia-Eindhoven firmato Ryanair. Lo compro al volo (scusate il gioco di parole) per poi accorgermi che Ryanair ammette una definizione di Venezia più elastica della mia: Treviso *è* Venezia. D’altra parte, se Malpensa *è* Milano, non è del tutto scorretto considerare Treviso come costola di Venezia. Purtroppo però l’aeroporto di Treviso non è collegato bene quanto quello di Malpensa.

Prendo atto della mia disattenzione e constato che l’aereo in partenza alle 20.20 mi dà tutto il tempo di arrivarci senza bisogno di una levataccia. Guardo gli orari di Trenitalia e trovo una combinazione di tre treni regionali che, attraversando le bellezze della Valsugana, mi portano a Treviso in tre ore. Non male, se non fosse che le due coincidenze sono rispettivamente di 8 e 11 minuti. Un po’ poco, considerati gli standard non proprio giapponesi cui Trenitalia di ha abituati.

Poi dalla stazione di Treviso all’aeroporto c’è un comodissimo bus urbano, e su quello mi sento più tranquillo (alla peggio c’è sempre il taxi).

Prenoto quindi questo viaggio mistico (per la mirabolante cifra di 9.85 euro) in modo da poter perdere entrambe le coincidenze: partenza ore 13.21 dalla stazione di Povo (ebbene sì, la Valsugana passa a 200 metri da dove lavoro). Senza intoppi, l’arrivo previsto sarebbe alle 16.20, quattro ore prima della partenza dell’aereo.

In tutto questo tempo, magari riesco pure a lavorare un po’.

Le mie buone intenzioni cessano immediatamente, appena salito sul treno a Mesiano: l’orario doveva farmi sospettare che si sarebbe riempito di imberbi studenti sulla via di casa dopo la mattinata di scuola. E infatti così è stato: inizio il viaggio in modo un po’ traumatico, stretto su un seggiolino a scomparsa e impossibilitato a tirar fuori il computer e lavorare. Pazienza, c’è sempre il mio fidato telefono, da scaricare tampinando di messaggi inutili gli account whatsapp di un po’ di gente che mi sopporta.

A Borgo Valsugana Est, la quiete dopo la tempesta: il treno si svuota e io posso iniziare a lavorare, senza mai staccare l’occhio da Viaggiatreno, l’app di Trenitalia che ti dice di quanto il treno è in ritardo (è buffo come Trenitalia abbia preferito fare un grosso investimento sul comunicarti con chirurgica precisione il ritardo di un treno, invece di investire sul tentativo di farlo arrivare in orario). Per ora sono solo 4 minuti, ma considerato che la coincidenza è di 8 e siamo solo a metà tragitto, direi che la statistica non è dalla mia parte.

E invece, ecco che il Triveneto stupisce: a Bassano del Grappa (stazione del primo cambio) arrivo in orario perfetto. Con tanto di capotreno che al mio “che bello, abbiamo recuperato il ritardo” mi ha risposto “ma noi non siamo mai stati in ritardo”. Va be’, glielo concedo.

Anche il secondo cambio (in quel di Castelfranco Veneto) va tutto a buon fine, così come il bus che dalla stazione di Treviso porta all’aeroporto. Quest’ultimo, timidino, ha la stazza paragonabile a quella del MediaWorld di Trento, per cui, se non avessi chiesto a un autoctono trevisano se la fermata dove scendevano tutti fosse proprio quella dell’aeroporto, probabilmente adesso sarei ancora sul mezzo in attesa della Heathrow del Nord-Est.

Comunque eccomi qui, con più di tre ore di anticipo sull’orario del volo, a scrivere cazzate sul blog e a cambiare il mac address del mio computer ogni 30 minuti, così da fottere il wi-fi gratuito dell’Aeroporto di Treviso.

Acqua, un bene di lusso

(Pubblico qui di seguito la lettera inviata all’Adige, che il quotidiano ha pubblicato in data odierna nello spazio riservato alle segnalazioni dei lettori)

Spett.le Adige,
vi scrivo per parlarvi di un aspetto della nuova apertura del Burger King che mi ha lasciato alquanto perplesso.

Ho letto più volte (sull’Adige e su altri media) di come questa apertura abbia creato posti di lavoro e di quanto il gigante americano abbia sottolineato che molti suoi prodotti sarebbero stati acquistati in Italia, alcuni addirittura da produttori locali.
Ammetto di essere molto attratto da questo tipo di cibi, pertanto ho voluto provare subito il nuovo arrivato (mercoledì 20 gennaio, intorno alle 22.30). Mi avvicino al bancone e ordino il menu. Non mi viene chiesto quale bevanda voglia (come accade negli altri ristoranti della catena e nella maggior parte di quelli della concorrenza), ma mi viene fornito un bicchiere vuoto. La peculiarità del Burger King di Trento è la possibilità di riempire il proprio bicchiere infinite volte, con la bibita che più si preferisce (questa opzione viene chiamata “free refill”). Stuzzicato da questa novità, prendo il mio bicchiere e vado dalle bibite. Ci sono tutte: Coca Cola, Fanta, Sprite, tè al limone, addirittura il ghiaccio, ma… noto subito un’assenza pesante, ovvero l’acqua. Nonostante quei distributori producano in loco le bibite a partire dall’acqua, quest’ultima non è prevista dal distributore.
Torno quindi un po’ scettico alla cassa, chiedendo come sia possibile avere della banale acqua, e la ragazza mi risponde gentilmente che dovevo dirlo prima e che ormai avrei dovuto pagare l’acqua a parte (notare che non avevo ancora utilizzato il mio bicchiere vuoto). Ma come? Posso prendere infinite volte le bibite zuccherate e gasate, peraltro dannose per la salute, ma devo ricordarmi di chiedere l’acqua prima?
Infine, la beffa finale: se anche avessi preso l’acqua, ne avrei avuto solo il mezzo litro canonico della bottiglietta, senza possibilità di free refill.

Sono rimasto negativamente sorpreso da una politica aziendale così ottusa e orientata al puro marketing. Altro che produttori locali e “made in Italy”: qui le multinazionali che producono bevande riescono a imporre la loro presenza in modo così determinante da far diventare l’acqua una bevanda di lusso e negarla ai consumatori meno attenti.

Spero vivamente una marcia indietro del Burger King di Trento, altrimenti temo che la mia visita della scorsa settimana sarà anche l’ultima.

Nel ringraziare dell’attenzione, porgo distinti saluti.
Alessio Palmero Aprosio

Meno imposte di bollo per tutti

Chiedo scusa ai miei 25 lettori se sono stato un po’ assente, ma il clima vacanziero ha divorato il mio tempo libero!

In questi giorni sto ottimizzando un po’ la burocrazia che invade la mia vita, un po’ per risparmiare e un po’ per avere meno garbugli in testa. Per esempio, i conti in banca: alcuni aperti per comodità, altri per obbligo, altri per offerte varie, alla fine mi sono trovato con un sacco di conti riempiti ciascuno con pochi spiccioli. Un po’ come avere tanti telefonini e non aver nessuno da chiamare: meglio scegliere un solo cellulare e portarsi dietro quello (o trovare qualche amico in più).

In particolare, oggi volevo chiudere il conto Hello Bank, aperto in un momento in cui la banca pubblicizzava offerte da capogiro (iPad gratis se apri il conto e accrediti lo stipendio per almeno un paio di mesi), e speranzoso di utilizzarlo poi da un punto di vista operativo. Purtroppo l’interfaccia web scadente e l’utilizzo intensivo dell’OTP (one-time password) mi hanno fatto desistere. Inoltre sono rimasto molto deluso quando ho pagato un F24 tramite il sito e ho potuto scaricare la ricevuta di tale pagamento solamente dopo 20 giorni. Un conto online dalle tempistiche offline. Ora una piccola digressione che può dire molto sull’affidabilità del conto. Quanto ho telefonato perché il link per scaricare la ricevuta continuava a non comparire, si sono scusati e mi hanno detto che mi avrebbero inviato il documento via mail, dietro sillabazione della mia password per telefono all’operatore che mi aveva risposto. Ma stiamo scherzando? E se usassi quella password anche per altri servizi? Come faccio a sapere che quell’operatore (essere umano, pensante e quindi potenzialmente stronzo) non la userà per provare a entrare nel mio account Facebook o nella mia posta elettronica, se per caso ho avuto la – stupidissima – idea di usare la medesima password per più di un servizio? E comunque, cosa più importante: invece di istruire gli utenti che la password non deve mai essere divulgata a nessuno per nessun motivo me la vieni a chiedere per telefono? Insomma, ramanzina in diretta per l’operatore e l’acquisizione della consapevolezza che Hello Bank è gestita da persone inesperte. D’altra parte basta guardare l’interfaccia per gestire il conto per capire che chi l’ha creata non aveva la minima intenzione di utilizzarla per davvero. Fine della digressione.

Volevo chiudere il conto, si diceva. Faccio il login e vado in giro per cercare una FAQ (che trovo) sulla procedura per farlo. Nel mentre, noto che non mi è stato addebitato l’usuale obolo di 8.55 euro trimestrali per il pagamento dell’imposta di bollo, in sostanza una tassa dovuta allo stato per il solo fatto di avere un conto in banca (un po’ come il bollo per l’automobile). Ho cercato su internet, per scoprire la fantastica verità: grazie alla legge salva-Italia (del 2012, la ricordate?), l’imposta di bollo si paga solo sui conti che – mediamente – contengono almeno 5mila euro. Wow!

Innanzi tutto mi si è automaticamente risolto un problema: invece di chiuderlo, è più pratico svuotarlo e lasciarlo abbandonato.

In secondo luogo, mi sono chiesto: ma quindi se io apro un tot di conti senza canone (tipo quelli online) e suddivido lì il mio patrimonio non devo pagare nulla? Purtroppo no. O meglio: sì, ma con alcune limitazioni. Una di queste riguarda i conti nella stessa banca: se il totale dei soldi contenuti nei conti di uno stesso gruppo bancario supera la fatidica soglia, la tassa va pagata ugualmente. Per fortuna però in Italia non siamo certo a corto di banche; e per sfortuna non ho così tanti soldi da incamerare per cui non mi bastano le banche. Basta creare conti diversi nelle diverse banche online (per esempio la già citata Hello Bank, ma anche l’ottima Fineco, la gialla CheBanca!, l’arancione Ing Direct e chi più ne ha più ne metta), stando attenti ai gruppi di appartenenza. In questo modo, si può evitare di pagare una tassa senza infrangere alcuna legge. Sì, lo so, sembra una cosa stranissima, ma a volte questa magia si realizza anche in Italia.

In soldoni (gioco di parole), per ora ‘sto conto lo tengo.

Una vita in più

Il nostro corpo è una macchina meravigliosa: complessa tanto quanto basta per poter affermare con certezza che non ne esistono due uguali. Tuttavia, come accade per ogni struttura elaborata, è soggetta ad alcune criticità che ne possono compromettere il funzionamento, a volte in maniera definitiva. E questa è la principale proprietà che differenzia l’essere biologico da quello meccanico: il primo non può essere ripristinato in alcun modo, una volta che se ne è decretato il decesso.

La letteratura medica parla di tre pilastri fondamentali che – se mancanti – richiedono un intervento urgentissimo perché possono degenerare velocemente: coscienza, respiro e circolo. Andando più nei dettagli, ci sono alcune operazioni molto semplici che, se conosciute e utilizzate al momento opportuno, posso realmente fare la differenza tra la vita e la morte.

Per quanto riguarda la coscienza, in realtà questa di per sé non porta necessariamente a una situazione rischiosa (quando dormiamo siamo incoscienti, ma non stiamo rischiando nulla); tuttavia, l’incoscienza può causare effetti collaterali ad altissimo rischio, come per esempio uno svenimento durante una nuotata in piscina o in concomitanza con un conato di vomito. Per questo motivo esiste la posizione laterale di sicurezza: semplice da adottare qualora ci si trovi in presenza di una persona incosciente, purché si sappia che esiste.

Passando al respiro, invece, è palese che una sua interruzione può provocare un rapido decesso. Il caso repentino di interruzione di respiro più comune è quello causato dall’ostruzione delle vie aeree, quando cioè un corpo presente nella nostra bocca “va nel buco sbagliato” e invece di finire nello stomaco si blocca nella nostra trachea. In questo caso, esistono almeno due manovre da adottare.

  • La prima (detta di Heimlich) tenta di espellere il corpo estraneo da dove è entrato (la bocca) tramite una serie di pacche sulla schiena seguite da una serie di compressioni sotto lo sterno. Va adottata solamente quando le vie aeree sono completamente bloccate: finché si tossice, infatti, significa che l’aria passa ancora e non occorre fare nulla (nemmeno le usuali pacche sulla schiena della nonna: rischiano solo di peggiorare la situazione).
  • La seconda, da usare in caso di fallimento della prima, è il classico massaggio cardiaco (vedi sotto), che tenta di muovere il corpo verso una delle due direzioni possibili, tramite l’alternanza di compressioni sul torace e insufflazioni (respirazione bocca a bocca): se il corpo non riesce a uscire dalla bocca tramite le prime, si spera che si infili in uno dei due bronchi con le seconde, lasciando l’altro bronco libero di respirare.

Infine, il circolo. Anch’esso fondamentale per la vita, può essere interrotto in due modi: un problema al cuore e una emorragia. Se si pensa alla circolazione sanguigna come all’impianto idraulico di una casa, è chiaro che l’acqua può mancare se si interrompe la fornitura a monte (cuore) oppure se si spacca un tubo (emorragia).

  • Nel primo caso, si esegue il massaggio cardiaco (quello che si vede spesso nei film) alternando compressioni sul torace e insufflazioni: le prime simulano il battito cardiaco e inviano il sangue agli organi che ne hanno bisogno; le seconde simulano il respiro (che in caso di arresto si interrompe dopo pochi minuti) e permettono al sangue in circolo di essere ossigenato. Vale la pena ricordare che il sangue non è altro che il modo che ha il corpo per distribuire l’ossigeno agli organi, pertanto le sole compressioni risulterebbero inutili perché porterebbero sangue scarico.
  • Il caso dell’emorragia è invece paradossalmente più semplice: se c’è un buco nel tubo, basta chiudere il tubo e impedire che il liquido esca. Fuor di metafora, per interrompere una emorragia causata da una ferita è sufficiente (almeno nei casi più fortunati) premere su di essa per limitare l’uscita di sangue.

Quattro manovre, nemmeno troppo difficili: il prezzo da pagare è solo impararle, e ripassarle ogni tanto. Se le nostre istituzioni scolastiche si occupassero anche di questo e insegnassero le basi del primo soccorso, come già accade in altre realtà europee, al prezzo di qualche ora di storia o letteratura vivremmo tutti più tranquilli.